Tracce di riti iniziatici femminili nello Yonec di Maria di Francia e in AT 432

  • Traces de rites initiatiques féminins dans Yonec de Marie de France et dans le conte type AT 432
  • Traces of Female Initiation Rites in Yonec by Marie de France and in the AT 432

DOI : 10.35562/iris.992

Sulla base degli studi di Mircea Eliade, l’Autore evidenzia, nel lai antico francese Yonec e in due racconti popolari riconducibili al tipo AT 432, «The Prince as bird» (Il Principe Verdeprato di G. B. Basile e La penna di Finist, falco splendente raccolto da A. N. Afanasev), tracce di scenari iniziatici femminili e del viaggio oltremondano sciamanico.

Sur la base des études de Mircea Eliade, l’auteur met en évidence, dans le Lai de Yonec de Marie de France et dans deux contes de fées liés au conte-type AT 432 « L’Oiseau bleu » (Prince Verdeprato de G. B. Basile et Finist, clair faucon recueilli par A. N. Afanasev), des traces des rites initiatiques féminins et du voyage chamanique vers l’Autre Monde.

On the ground of Mircea Eliade studies, the author analyses the Ancient French Lay of Yonec and two folk tales, connected to the type AT 432 “The Prince as bird” (The Prince Verdeprato by G. B. Basile and Finist the Falcon, collected by A. N. Afanasev), focusing on the presence of hints of ancient initiatory female rites and shamanic female otherworld voyages.

Plan

Texte

A conclusione del suo celebre saggio sull’iniziazione, Mircea Eliade suggeriva la prospettiva di individuare — nel panorama dell’Europa cristiana, dal Medioevo all’epoca moderna — tracce e lacerti di scenari iniziatici, sopravvissuti non tanto nella forma del rito vero e proprio, quanto nella forma di «costumi folkloristici, di giochi e di motivi letterari» (Eliade, 1974, p. 178), circostanziando poi i costumi folcloristici ai racconti di fate e i motivi letterari alla matière de Bretagne. È esattamente quanto ci proponiamo di fare studiando il Lai de Yonec di Maria di Francia e un campione di racconti popolari, riconducibili al ‘tipo’ 432 «The Prince as bird» secondo la classificazione del materiale folclorico realizzata da Aarne e Thompson (Aarne & Thompson, 1981); l’uno e gli altri infatti sono imparentati per la centralità del motivo D641.1 «Lover as bird visits mistress» nell’indice dell’etnologo statunitense (Thompson, 1955-1958). Le tracce che tenteremo di evidenziare afferiscono allo scenario dell’iniziazione e del viaggio oltremondano sciamanico, non maschile (ormai molti sono i lavori che individuano dietro agli eroi del romanzo cortese e del folclore lo spettro dello sciamano) ma femminile1. Si tratta di un’operazione tanto più delicata dal momento che le iniziazioni delle ragazze «sono state studiate meno che quelle dei ragazzi e sono quindi poco conosciute», anche perché di per sé meno accessibili agli etnologhi (Eliade, 1974, p. 67).

La dama del lai

Lo Yonec di Maria di Francia è il racconto di una storia d’amore in prospettiva femminile: Maria ci narra come la giovane e anonima protagonista, malmaritata a un vecchio geloso dopo sette lunghi anni di segregazione in una torre buia della dimora del marito, venga visitata da un giovane e bellissimo cavaliere, Muldumarec, che la raggiunge passando per una stretta finestra metamorfosato in astore. La relazione ovviamente giova alla dama che, per la conquistata felicità, rifiorisce, andando così a svegliare i sospetti del vecchio geloso. Quest’ultimo, scoperta la relazione, decide di punire la coppia adulterina, posizionando degli spiedi di ferro con punte d’acciaio taglienti sul balcone della finestra. Al successivo incontro il cavaliere-astore si ferisce mortalmente e rientra sanguinante al proprio regno, non prima di aver preannunciato alla dama la nascita di un figlio, Yonec, che li vendicherà. La dama, in preda all’angoscia, si slancia fuori dalla finestra ancora in camicia e, seguendo affannosamente la pista cruenta, rincorre l’amato, attraverso una collina, fino al suo regno, un magnifico castello argenteo. Penetrata nella dimora, la trova inizialmente deserta; solo in un secondo momento, dopo aver attraversato due stanze occupate da due cavalieri addormentati, incontra, in una terza stanza, l’amato moribondo, che, prima di esalare l’ultimo respiro, le consegna tre doni. Tali oggetti permetteranno a lei e al figlio di vivere illesi fino al giorno della vendetta; evento che immancabilmente si verificherà in chiusura di narrazione.

I riti iniziatici — siano essi di pubertà, di accesso ai culti e alle società segrete o di elezione a sciamano e medicine man — presentano sempre una fase iniziale di segregazione: l’eletto deve essere allontanato dalla comunità e messo alla prova come individuo. Nella specificità dei riti iniziatici femminili, Eliade rileva come questi comincino all’apparire della prima mestruazione: la fanciulla viene rinchiusa e isolata in un angolo buio della casa; su di essa infatti grava il divieto di vedere la luce del sole; la motivazione di tale tabù potrebbe risiedere nella solidarietà tra l’astro lunare e il principio femminile (Eliade, 1974, p. 69; Eliade, 1976, p. 242). La nostra storia inizia non a caso presentando la giovane protagonista segregata dal marito geloso in una torre buia. L’autrice insiste particolarmente sull’elemento dell’oscurità: il marito carceriere non permette a nessun servitore di accompagnarlo con una candela, per rischiarargli la strada, quando si reca a far visita alla moglie isolata: «N’i ot chamberlenc ne huissier | Ki en la chambre osast entrer | Ne devant lui cirge alumer» (vv. 42-44)2.

Ancora, è dopo sette lunghi anni di isolamento che la protagonista ‘rinasce’ alla felicità grazie all’arrivo del cavaliere-astore. Il sette è un numero mistico diffusissimo a ogni latitudine nei riti iniziatici e negli scenari sciamanici. Nell’antica Grecia le fanciulle ateniesi, secondo quanto Brelich ci dice a partire dalla lettura di un passo della Lisistrata di Aristofane, accedevano alla prima fase dell’iniziazione all’età di sette anni, diventando arrephoroi. Dopo aver vissuto per un certo periodo segregate nell’acropoli, in prossimità del tempio di Athena Polias, le iniziande dovevano compiere un rito notturno consistente nel trasportare — pherein — qualcosa di segreto — arretha — (Brelich, 1981, pp. 230-238). È dunque evidente come si ripresentino i medesimi elementi: il numero sette, l’isolamento e l’oscurità della notte necessaria alla performance del rito3. Il sette compare inoltre assai di frequente nel racconto popolare, anche in alcune versioni di AT 432, sempre strettamente connesso alla figura della fanciulla protagonista, come avremo occasione di vedere nel prossimo paragrafo4.

Ricapitolando: l’iniziazione delle ragazze prevedeva una fase preparatoria di segregazione al buio, a partire o dal settimo anno d’età — come nel caso delle fanciulle ateniesi — o, più generalmente, dall’apparire della prima mestruazione. La dama del nostro lai, pur giovane, è sposata; è evidente pertanto che non può rientrare a pieno titolo in nessuna delle due categorie di iniziande sopra indicate. Tuttavia, obliquamente, risponde a entrambi i requisiti: il momento di svolta, il punto di rottura, si verifica dopo sette anni di isolamento e il percorso iniziatico, il viaggio oltremondano vero e proprio prende l’avvio esattamente da uno spargimento di sangue. Scoperta la relazione adulterina, il marito geloso decide di vendicarsi della coppia allestendo una trappola di spiedi taglienti sul davanzale della finestra; Muldumarec, il cavaliere-astore, si ferisce e, prima di allontanarsi, sanguina copiosamente sul letto della dama: «Devant la dame el lit descent, | Que tuit li drap furent sanglent» (vv. 315-316). L’immagine del lenzuolo macchiato di sangue, pur trattandosi qui del sangue dell’amante, e dunque prova dell’adulterio, si trascina dietro, forzatamente, una simbologia opposta: quella del lenzuolo macchiato alla prima notte di nozze, prova della verginità della sposa, e dunque chiaro testimone di un’iniziazione sessuale femminile5. Tale iniziazione sessuale è però a sua volta strettamente collegata alla tappa iniziatica immediatamente precedente: il primo sanguinamento della fanciulla al momento del menarca. Non a caso il sangue mestruale e il sangue della prima notte di nozze — sia nella mentalità medievale sia presso le culture accomunate dal rito iniziatico — erano considerati pericolosi, venefici. Da cui la precauzione di allontanare le fanciulle appena mestruate e l’uso abbastanza diffuso presso alcuni popoli della deflorazione rituale delle vergini, prima del matrimonio; si veda quanto dice a tal proposito Caillois:

[…] quasi universalmente la deflorazione è stata considerata pericolosa. […] qui si effettua con le mani, là con uno strumento; spesso la giovane si siede sul fallo di una divinità. Molte volte ci si serve di un sostituto, straniero, prigioniero di guerra o personaggio consacrato, re o prete. […] Senza dubbio un timore del genere nasce dall’assimilazione del sangue dell’imene lacerato con il sangue mestruale cui sono ovunque connessi i più vari pericoli magici (1998, pp. 38-39)6.

Nella narrazione breve di Maria di Francia, l’emorragia mantiene la sua caratteristica ambiguità: spiccando da una ferita mortale, la materia cruenta veicola significati disforici, ma il sangue effuso dall’amante-uccello si carica in pari tempo di valenze positive, costituendo un evidente marchio di iniziazione e un segnavia verso l’Altro Mondo.

L’inseguimento da parte della dama dell’astore ferito ci sembra vada qualificato come viaggio sciamanico oltremondano; il carattere degli ostacoli da superare svela infatti la loro natura di prove iniziatiche. La prima prova che si impone alla dama è l’attraversamento della «estreite fenestre» (v. 107), la stessa da cui accedeva l’amante-uccello, essere sovrannaturale. La finestra si dà come luogo liminare, punto di passaggio e di collegamento tra questo e l’Altro Mondo, tra Terra e Cielo, in contrapposizione al passaggio banale e banalizzante della porta: nel lai, Muldumarec accede alla stanza dalla finestra; il vecchio geloso — ancorato al mondo terrestre e profano — attraverso la porta. A tal proposito si veda quanto dice Clier-Colombani: «[…] la voie terrestre se présente comme la voie appropriée pour le passage des hommes et des femmes faits de chair et d’os, des êtres incarnés, autant l’espace aérien détermine les déplacements des êtres désincarnés […]» (2003, p. 74). Ed è proprio in qualità di disincarnata, di spirito, che la dama-sciamano riesce a passare attraverso la finestra. Il salto prodigioso dalla torre infatti (equiparabile al celebre episodio del salto dalla cappella di Tristano, eroe-sciamano, tramandatoci da Béroul: «Tristran ne vait pas comme lenz. | Triés l’autel vint a la fenestre, | A soi l’en traist a sa main destre, | Par l’overture s’en saut hors» (vv. 942-945)7, sarebbe impensabile in un’ottica puramente terrena, e incongruente nell’economia della narrazione — l’infelice captiva sarebbe potuta evadere ben prima, come ha sottolineato parte della critica8; esso può avvenire unicamente nella dimensione estatica del volo magico: «Par une fenestre s’en ist; | C’est merveille k’el ne s’ocist, | Kar bien aveit vint piez de haut | Iloec u ele prist le saut!» (vv. 337-349). È soprattutto laddove il piano della coerenza del sistema culturale cortese vacilla che è richiesta la mobilitazione di strumenti extra-disciplinari, quali quelli forniti dall’analisi antropologica, capaci di far affiorare i sostrati mitici ed etnologici sottesi alla riformulazione letteraria. Il testo letterario medievale infatti si dà come una stratificazione di livelli diversi; dove il livello immanente, storicamente calettato, della coerenza cortese produce un’increspatura significa che sotto, dal profondo, il livello della coerenza mitica sta spingendo9. Tornando al testo, questo attraverso la finestra rientra nella categoria dei Passaggi Difficili, o Passaggi Paradossali, così definiti da Eliade in quanto insuperabili (e sta qui il paradosso: sono dei passaggi che negano il passo) con la semplice forza fisica; essi vanno affrontati con la forza dello spirito. Per raggiungere l’Altro Mondo l’eletto deve attraversare un ponte sottile quanto il filo di un rasoio (pons subtilis, pons electionis); oppure, passare attraverso due mole continuamente cozzanti (le Simplegadi, secondo la definizione di Coomaraswamy, il primo ad aver studiato tale simbolo)10, o ancora passare là dove giorno e notte si incontrano11. Terra e Cielo, in illo tempore comunicanti — nell’era paradisiaca, quando la morte ancora non esisteva — sono ormai per sempre separati: di qua i vivi, di là i morti. Lo sciamano pertanto, se vuole raggiungere l’Altro Mondo, deve essere in grado di performare, a proprio comando, la separazione tra anima e corpo — separazione che si dà invece come definitiva e irreversibile nei morti; se vuole raggiungere il loro regno, l’eletto deve farsi della loro sostanza: diventare morto in vita, disincarnato, spirito.

A questo si aggiunga il fatto che la dama intraprende il suo viaggio rivestita della sola camicia; tale dettaglio, che trova indubbiamente una prima giustificazione squisitamente pragmatica nello sconvolgimento frettoloso della nostra che, senza indugio, si slancia fuori alla rincorsa dell’amante ferito, potrebbe anche rivelarsi come una razionalizzazione del nucleo iniziatico sottostante. La partenza discinta della dama sembra infatti alludere alla nudità con cui il predestinato intraprende il rito di passaggio, nudità che rimanda agli stati liminari della vita — la morte e la nascita — entrambi implicati nel rito iniziatico. Non a caso, nel rito cristiano del battesimo (che può essere a tutti gli effetti considerato un rito di iniziazione: il catecumeno con l’immersione muore alla vita profana del peccato, per riemergere, purificato, alla nuova vita sotto il segno di Dio) si indossa una veste bianca, una camicia12. Tornando al contesto della matière de Bretagne l’affrontare da parte della dama il Passaggio in camicia, senza attributi dunque che rivelino lo status aristocratico, ci sembra il pendant femminile della svestizione simbolica del cavaliere: di fronte alle soglie oltremondane l’eroe deve presentarsi libero dal fardello terreno della propria personalità sociale, senza cavallo e senza armatura. Si pensi a Yvain dello Chevalier au Lion, che, per oltrepassare la saracinesca (vera Simplegade) del castello oltremondano di Laudine deve lasciare speroni e cavallo, gli attributi che per antonomasia fanno un cavaliere (vv. 942-950)13; o a Lancillotto che, nello Chevalier de la Charrette, prima di affrontare il Ponte della Spada (pons subtilis) si spoglia dell’armatura (vv. 3100-3103)14.

Oltrepassata la prima soglia, la vertiginosa corsa orizzontale della dama sulle tracce cruente dell’amato, non è descritta di per sé. Come nel racconto di fate,

[…] lo spazio rappresenta una duplice parte: da un lato esiste nel racconto, è un elemento assolutamente indispensabile della composizione; dall’altro è come se non ci fosse. Tutto lo sviluppo del racconto procede nelle soste, e queste soste sono elaborate minuziosamente (Propp, 1972, p. 76).

La narratrice non si sofferma sulle modalità del viaggio, presa quasi dalla stessa fretta spasmodica della protagonista; arriviamo immediatamente al secondo ostacolo, alla seconda prova iniziatica: «Icel sentier errat e tint, | De si qu’a une hoge vint» (v. 345-346). Essa consiste nel superamento, tramite il passaggio sotterraneo, di un poggio, una sorta di Sid, la collina al di là della quale si trova l’Altro Mondo celtico. Se la natura ctonia del passaggio non bastasse a convincere del suo ruolo di soglia, discrimine tra mondo terreno e Altro Mondo (in moltissimi miti si accede al regno dei morti tramite catabasi), esso è confermato dalla modalità di attraversamento dello stesso: la dama vi si slancia dentro a gran velocità. Rapidità e leggerezza sono appunto le due condizioni necessarie per passare illesi nell’intervallo unidimensionale e atemporale che separa i due battenti delle Simplegadi cozzanti15. Essi rappresentano infatti i contrari, la bipolarità propria della vita terrena; per raggiungere l’Altro Mondo l’eletto deve essere in grado di trascendere tale dualità passando rapidissimamente appunto per la coincidentia oppositorum, quell’intervallo fuori dal tempo e dallo spazio in cui gli opposti si aboliscono e si superano (Coomaraswamy, 1987).

Infine, sulla natura oltremondana della meta del viaggio, la dimora di Muldumarec, ci pare possano sussistere pochi dubbi16: l’eccezionale sfarzo della città (tutti gli edifici sembrano d’argento, materiale che rimanda facilmente alla luminosità delle sedi del soprasensibile) contrasta con l’assoluta desolazione che vi regna all’arrivo della dama — caratteristica condivisa da molte altre dimore feriche che si presentano deserte al visitatore, in arrivo o in partenza. Un esempio fra tutti la dimora del Re Pescatore, il castello del Graal — il più oltremondano dei castelli cortesi — che si presenta abbandonato a uno stranito Perceval, l’indomani del suo arrivo, la mattina della partenza, secondo quanto ci racconta Chrétien de Troyes nel Conte du Graal (vv. 3360-3421). Il castello oltremondano di Muldumarec si dà allo stesso tempo come il regno della morte. La protagonista, dopo aver incontrato nelle prime due camere del castello due cavalieri dormienti, prefigurazione del cavaliere-astore, in una terza stanza si imbatte finalmente nell’amante, che, in fin di vita, la esorta ad abbandonare il palazzo e le consegna tre doni: un anello, una spada e una tunica. Nel lai tali oggetti servono alla vendetta sul vecchio geloso: l’anello gli farà dimenticare l’adulterio della moglie e la spada, brandita dal figliastro, Yonec, gli procurerà la morte per decapitazione (la tunica, più banalmente, serve a rivestire per il viaggio di ritorno la dama che, come si ricorderà, è ancora in camicia)17. Nel prossimo paragrafo torneremo sul ruolo che i tre doni rivestono all’interno del folclore; quello che può sembrare un artificio posticcio e scontato, volto a semplificare l’economia narrativa del lai (solo l’anello della dimenticanza rende possibile il prosieguo della narrazione e quindi l’avverarsi della profezia), si rivelerà, se confrontato con il racconto popolare, centrale nella qualificazione della fanciulla protagonista come sciamana.

La fanciulla del racconto

Come anticipato, la storia d’amore raccontata da Maria di Francia assomiglia da vicino ad alcuni racconti popolari, riconducibili al tipo AT 432, «The Prince as bird». Ci sembra tuttavia che essi possano essere suddivisi in due sotto-tipi, due sotto-gruppi, ulteriormente distinguibili per un diverso finale. Un primo gruppo di racconti prevede che la fanciulla, al termine del suo viaggio, raggiunga l’amante-uccello mortalmente ferito e lo guarisca; in un secondo gruppo, invece, la protagonista, terminato il viaggio, raggiunge l’amante, già guarito ma convolato a nuove nozze, e lo sottrae alla nuova moglie. Il primo finale (condiviso con il racconto-tipo AT 433 «The Prince as serpent»), è attualizzato ad esempio nelle fiabe italiane Il Principe Verdeprato seconda novella della seconda giornata del Pentamerone di Giovan Battista Basile (1634-1636)18, La coscia di monaca, fiaba toscana raccolta da Giuseppe Pitrè (1885), o nella fiaba indiana, raccolta da Maive Stokes, The Fan Prince (1879). Il secondo finale invece (condiviso con il racconto-tipo AT 425, «The Search for the lost husband») si riscontra nella fiaba francese L’Oiseau bleu di Madame d’Aulnoy (1697)19, nella russa La penna di Finist, falco splendente, raccolta da Aleksandr N. Afanasev (1871)20 e, ancora, in una fiaba italiana, la quarta della terza giornata delle Piacevoli Notti di Giovanni Francesco Straparola (1550). Le fiabe proposte ovviamente sono solo una campionatura all’interno dello sterminato materiale folclorico disponibile, campionatura che mira però a essere il più inclusiva possibile, sia nel senso dell’estensione cronologica sia in quello della distribuzione geografica.

Iniziamo con una fiaba appartenente al secondo sotto-gruppo: La penna di Finist, falco splendente21. La più bella e la più giovane (come sempre) di tre sorelle viene visitata ogni notte da un bellissimo e ricchissimo principe, Finist, che la raggiunge nella sua camera passando per la finestra sotto forma di falco. Tali visite suscitano immancabilmente la gelosia delle due sorelle maggiori, le quali, per vendicarsi della fortuna e della felicità della minore, posizionano una trappola di coltelli affilati sul balcone della finestra, provocando il ferimento dell’amante-uccello e la sua conseguente fuga. La giovane addolorata parte subito alla ricerca dell’amato, portando con sé tre paia di scarpe, tre bastoni, tre berretti e tre gallette, tutto di ferro. Inoltratasi nel bosco raggiunge per tre volte la capanna della baba-jaga, la quale, dopo averla ristorata, le fa dono di tre oggetti preziosi e la indirizza verso il regno oltremondano in cui Finist, ormai sposato, abita con un’altra donna. La fanciulla vende a quest’ultima i tre oggetti preziosi, regalo della jaga, in cambio di tre notti da passare in compagnia del marito. L’impresa di riconquista tuttavia si rivela più difficile del previsto dal momento che la moglie malvagia forza Finist a un sonno profondo; solamente la terza notte la fanciulla incontra l’amante sveglio, quest’ultimo la riconosce e decide di abbandonare la donna che l’ha venduto per partire con la donna che l’ha comprato e tornare insieme nel regno di lei.

A proposito degli scenari iniziatici, Eliade mette in luce come la maggior parte delle volte essi, in contesto letterario e folclorico, si concretizzino nella forma di una «Ricerca lunga e movimentata […] che implica fra l’altro che l’eroe penetri nell’altro mondo» (1974, p. 181). Esattamente come la dama del lai, la fanciulla del racconto intraprende un lungo viaggio alla ricerca dell’amante-uccello ferito e scomparso; a differenza della dama, però, la giovane russa deve penetrare in una foresta buia, fittissima e angosciante. La foresta, così come il bosco, è lo scenario prediletto dei riti di iniziazione maschili e femminili: è nel folto della vegetazione che l’adolescente muore alla vita profana e rinasce da iniziato. Essa infatti — in virtù della sua oscurità e densità — si presta facilmente a simbolo dell’indistinto e del preformale, andando così a rappresentare quel passaggio per il Caos, quel ritorno alla Notte Cosmica, tappa obbligata nell’attesa dell’aurora di ogni nuova Creazione (Eliade, 1976, p. 229).

Apriamo ora una breve parentesi per evocare altri tre testi letterari antico-francesi che mettono in scena un viaggio femminile attraverso la foresta, viaggio che ci sembra possa essere caratterizzato come prova iniziatica. Nell’Yvain ou Le Chevalier au Lion una fanciulla intraprende una cavalcata disperata — per conto della figlia cadetta del Signore di Nera Spina — al fine di chiedere aiuto all’eroe eponimo; tale cavalcata sfocia in un terrifico viaggio notturno attraverso la foresta, sotto la tempesta, in un parossismo di ostacoli e paure (vv. 4839-4854). Una cavalcata analoga è affrontata dalla protagonista del Vair Palefroi (di Huon le Roi, risalente all’ultimo quarto del XIII secolo) la notte precedente alle sue nozze. La sventurata giovane, promessa al vecchio zio dell’amato — secondo uno schema tutt’altro che insolito — riesce a fuggire alla mésalliance in groppa allo straordinario palafreno dell’amico. Il cavallo, la cui iperbolica bellezza svela fin dal principio un’impronta meravigliosa, si rivela un vero animale psicopompo (tra poco ci soffermeremo su tale simbolo) che conduce la giovane iniziata in un viaggio attraverso il buio della notte e della selva, fino alla dimora dell’amato, sita al di là di un fiume invalicabile (vv. 933-1115)22. Nonostante gli evidenti sforzi di razionalizzazione da parte dell’autore (il viaggio ha luogo di notte perché la vedetta, obnubilata dal troppo vino, scambia il chiarore della luna per quello dell’alba; il cavallo devia verso il profondo della foresta perché abituato a quel cammino; il superamento del fiume, largo e profondo, è possibile perché l’animale già sa dove guadarlo), la cavalcata notturna — esattamente come quella del testo cristianiano — si presenta come una prova iniziatica, di ritorno al preformale. La notte, la selva e la tempesta provocano lo smarrimento della protagonista, un suo ritorno all’indistinto primordiale — passaggio obbligato che prelude alla rinascita dell’iniziata. Quanto detto è perfettamente estendibile a un ultimo solitario viaggio notturno nella foresta che vede come protagonista Berta — principessa d’Ungheria e promessa sposa di Pipino, re dei Franchi — in Berte aus grans piés (di Adenet le Roi, risalente all’ultimo quarto del XIII secolo), opera che dedica più di 650 versi al resoconto di tale episodio (vv. 553-1235)23. Berta — condotta nella foresta per essere uccisa e solo all’ultimo rilasciata dai propri giustizieri commossi — fugge disperata nel folto della vegetazione, in piena notte, insidiata dal freddo, dal vento e dalla grandine, in una situazione dunque in tutto e per tutto sovrapponibile a quella delle due eroine sopra incontrate. A ciò tuttavia si aggiunge la minaccia, più o meno reale, di essere sbranata dalle bestie feroci. Se la foresta già di per sé costituisce il perfetto scenario dell’iniziazione, il dettaglio del pasto ferino non lascia alcun dubbio: spesso infatti nell’immaginario iniziatico l’eletto «è ucciso dall’Animale mitico Maestro d’iniziazione, dilaniato e triturato nella sua gola, digerito nel suo ventre» (Eliade, 1974, p. 59). Il ventre del mostro divoratore rappresenta allo stesso tempo il ventre materno, dunque essere inghiottito dal mostro equivale per l’iniziato a un ritorno allo stato embrionale: l’eletto muore nel mostro ma allo stesso tempo è da qui che rinasce alla seconda vita.

Tornando alla nostra fiaba, se «la foresta del racconto di fate riflette da un lato la riminiscenza della foresta come luogo dove si celebrava il rito» iniziatico, essa si presenta «dall’altro come ingresso al regno dei morti» (Propp, 1972, p. 93); le due rappresentazioni peraltro sono tra loro solidali, dal momento che il rito iniziatico prevede, in vista della rinascita, la morte dell’eletto. Dire pertanto che la fanciulla penetra nella foresta è come dire che si è incamminata sulla strada per l’Altro Mondo, per il regno dei morti, rispettando una simbologia tutt’altro che rara. Basti pensare al sesto libro del poema virgiliano in cui la catabasi di Enea prevede il transito per una foresta o, ancora, alla dantesca «selva oscura», preludio al viaggio oltremondano del fiorentino.

Un ulteriore dettaglio che ci permette di affermare la natura oltremondana del viaggio è l’equipaggiamento della fanciulla: questa porta con sé calzature, bastoni, berretti e gallette di ferro. È stato notato che spesso nelle sepolture il corpo è interrato assieme ad alcuni oggetti — oggetti che si pensa potrebbero aiutare il defunto nella sua vita nell’Aldilà — tra cui figurano con maggior frequenza uno o più paia di scarpe. Si riteneva infatti che il morto, per raggiungere la sua ultima dimora, dovesse intraprendere un lungo viaggio a piedi e che dunque gli occorressero calzature robuste. Ciò detto, lo strano materiale delle scarpe della nostra risulta subito spiegato: sono di ferro perché devono durare il più a lungo possibile, così come il bastone da viaggio e tutto il restante equipaggiamento (Propp, 1972, pp. 78-81).

Penetrata nel bosco, la fanciulla incontra la baba-jaga, la guardiana del regno dei morti, all’interno di una piccola isba rotante su zampette di gallina. L’isba che gira su se stessa viene in realtà fatta girare dalla protagonista che pronuncia la parola d’ordine: «Izba, izba! Volta la schiena al bosco e guardami!» (p. 98). L’entrata della dimora della jaga infatti è voltata verso l’Altro Mondo, sta all’iniziata trovarsi il varco in quello che è apparentemente un muro impenetrabile. L’isba, dunque, tradisce evidentemente la sua natura di Passaggio Difficile o Passaggio Paradossale: essa non può essere aggirata dal momento che si trova sulla frontiera che separa l’aldiquà dall’aldilà, il transito è obbligato; vi è infatti un’unica via che conduce all’Altro Mondo e solamente l’eletto è in grado di percorrerla. Il dettaglio delle zampe di gallina inoltre costituirebbe il residuale dell’originaria natura animale della piccola isba, mostro inghiottitore che divora l’iniziato (Propp, 1972, pp. 93-103). Essa è dunque l’ipostasi narrativa della capanna nella foresta in cui avveniva il rito iniziatico, immaginata come il ventre del mostro in cui — come abbiamo già detto — l’iniziato è smembrato e digerito, in vista della rinascita. Non appena la fanciulla ha varcato la soglia dell’isba, la baba-jaga si lamenta del forte fetore di russo che da questa promana: «Fu-fu-fu! Prima odor di russo non vedevo né sentivo; ora, invece, vaga libero per l’aria, l’occhio lo coglie e dal naso non si toglie!» (p. 98). L’odore della fanciulla in realtà non è odore di russo ma odore di uomo, di uomo vivo: «[I] morti non hanno odore perché sono incorporei, i vivi hanno un odore, i morti riconoscono i vivi dall’odore» (Propp, 1972, p. 104); è evidente pertanto che la nostra fanciulla sta cercando di intrufolarsi, da viva, nel regno dei morti, esattamente come gli sciamani.

La jaga poi fa dono alla fanciulla di tre oggetti preziosi e le suggerisce come impiegarli una volta raggiunto il regno dell’amato. Tra di essi figura uno splendido destriero ed è in groppa a quest’ultimo che la fanciulla esce dall’isba e arriva in un battibaleno nel regno in cui si trova l’amato. Tra i vari animali-guida che conducono gli uomini per i cammini dell’aldilà, il cavallo figura come il più frequentato dal rituale sciamanico. Esso infatti in tale mitologia è l’animale psicopompo per antonomasia che conduce l’anima del morto nell’aldilà; ed è proprio in virtù di questa sua natura funeraria che viene impiegato dallo sciamano come mezzo per pervenire all’estasi, per attuare quella rottura di livello (la separazione temporanea tra anima e corpo) necessaria al raggiungimento dell’Altro Mondo, celeste o infero che sia (Eliade, 1974, pp. 495-499)24. Già abbiamo detto come la jaga suggerisca alla fanciulla di vendere alla nuova moglie di Finist i tre doni in cambio di tre notti nel letto dell’amato; e come questo le prime due notti sia sprofondato in un sonno senza uscita provocato dalla magia della moglie. Che l’immobilità del corpo nel sonno e la sua orizzontalità posturale richiamino quelle della morte è una costante antropologica universale, tuttavia le fiabe russe tendono a marcare ulteriormente tale vicinanza. Il primo commento di tutti i fanciulli e di tutte le fanciulle del racconto di fate russo, uccisi e resuscitati (in genere grazie all’acqua di morte e all’acqua di vita) è volto a illustrare la profondità e la lunghezza del sonno in cui sono caduti: «Ah, quanto ho dormito!» (La storia del principe Ivan, dell’uccello di fuoco e del lupo grigio, p. 91); «Ah, quanto tempo ho dormito!» (Lo specchio magico, p. 121), per fornire qualche esempio. A questo punto ci sembra lecito dire che la fanciulla protagonista — inoltratasi nella foresta, affrontata la baba-jaga, guardiana infernale, superata la soglia oltremondana in groppa al cavallo psicopompo — arrivi finalmente nel regno della morte per sottrarre alla regina degl’Inferi l’amato e ricondurlo con sé nel regno dei vivi.

Il doppio schema triadico messo in scena dalla fiaba — le tre notti di sonno e i tre doni — presenta notevoli punti di contatto con il doppio schema triadico incontrato nel lai bretone25: tre camere in cui giacciono rispettivamente due cavalieri dormienti e l’amante-uccello morente e i tre oggetti meravigliosi che quest’ultimo dà in dono alla dama. Tale convergenza, unitamente a quanto si è osservato nei due testi singolarmente, ci permette di affermare che tanto la dama bretone quanto la fanciulla russa sono due sciamane, impegnate in un viaggio salvifico nell’Altro Mondo. Tra le specifiche funzioni che lo sciamano ricopre all’interno della propria comunità, infatti, figura il viaggio oltremondano, velocissimo, che tale professionista del sacro deve compiere per andare a recuperare l’anima di un mortale rapita da una qualche creatura demoniaca e in viaggio verso la morte. Indubbiamente la vittoria della sciamana sulla morte appare più netta nel racconto di fate; non si dimentichi tuttavia che il lai non si chiude con la morte dell’amante-uccello ma con il trionfo del figlio di questi, Yonec, che giustizia l’assassino del padre e crudele guardiano della madre.

Passiamo ora all’altro sotto-gruppo di AT 432, e in particolare alla novella napoletana di Basile, Il Principe Verdeprato26. Nella, la più giovane e la più bella di tre sorelle, diviene l’amante di un bellissimo principe fatato27 che la raggiunge ogni notte nella sua camera, passando per un magico condotto di cristallo incantato. Le due sorelle maggiori, brutte e invidiose, decidono di punire la più piccola: rompono il passaggio cosicché il principe, all’incontro successivo, si taglia sui vetri e, mortalmente ferito, torna nel regno paterno. Nella, dopo essersi tinta il volto di nero e travestita, decide di raggiungere l’amato per tentare di guarirlo. Lungo la strada, penetrata in un fitto bosco e, trovata una casupola, origlia fuori dalla finestra la conversazione di una coppia di orchi; l’unico rimedio per guarire le ferite mortali del principe risiederebbe per l’appunto nel grasso d’orco che, debitamente spalmato sui tagli, ne provocherebbe l’immediata cicatrizzazione. La fanciulla, fattasi coraggio, bussa alla porta chiedendo ospitalità per la notte. Gli orchi, ghiotti di carne umana, la lasciano entrare pregustando il raro bocconcino, tuttavia, per il troppo vino, cadono addormentati. Nella svelta svelta scanna la coppia, ne preleva il grasso e corre a curare l’amante. Solo dopo essersi lavata il viso, Nella è riconosciuta dal principe; il lieto fine è così assicurato, con tanto di punizione per le sorelle malvagie.

Alla luce di quanto detto finora, risulta facile individuare un percorso iniziatico anche dietro al viaggio della giovane napoletana. Nella intraprende la ricerca dell’amante fuggito in completa solitudine (la segregazione è propedeutica allo svolgimento del rito), si inoltra nel fitto del bosco (la densità e l’oscurità della vegetazione rimandano all’indistinto, al preformale, necessario preludio alla rinascita), e qui si imbatte in una casupola abitata da un orco cannibale (la capanna iniziatica simbolo del mostro inghiottitore, nel cui ventre l’iniziato muore per rinascere alla seconda vita). Lo sciamano, oltre a essere un viaggiatore oltremondano — reintegratore di anime rapite nel regno infero, è anche un guaritore di quelle malattie causate, nell’immaginario, da agenti sovrannaturali. Le due funzioni peraltro sono praticamente sovrapponibili: durante le sedute di guarigione, infatti, lo sciamano raggiunge la trance e vola nell’Altro Mondo per ritrovare l’anima rapita; è per l’appunto la vacanza dell’anima che mette l’uomo in uno stato di labilità e maggior esposizione alla malattia28. La fanciulla del racconto napoletano pertanto è una sciamana tanto quanto la fanciulla del racconto russo e la dama del lai bretone: Nella, infatti, è la sola a poter guarire l’amante, ferito mortalmente sui vetri incantati del condotto. Questa la risposta dell’orco alla moglie, stupita di fronte all’incapacità dei medici di guarire il principe: «“Ascolta, vezzosetta mia, non sono obbligati i medici a rimedi che passino i confini della natura”» (Basile, p. 179): per una malattia sovrannaturale serve un guaritore sovrannaturale, uno sciamano, un medicine man. Si aggiunga che Nella intraprende la quête travestita e con il volto tinto di nero: ci sembra che entrambi i dettagli possano rimandare alla maschera sciamanica. Il viaggiatore oltremondano, infatti, quando penetra «nel regno delle ombre s’impiastriccia il viso di grasso per non essere riconosciuto dagli spiriti» e tale operazione allo stesso tempo «costituisce uno dei modi più semplici per assumere una maschera» (Eliade, 1974, p. 190). La fiaba napoletana dunque, evidentemente non capendolo ormai più, raddoppia il simbolismo della maschera iniziatica: Nella infatti sia si traveste, sia si impiastriccia il volto — surrogato del travestimento — per non farsi riconoscere come intrusa, come viva, nel mondo dei morti.

Conclusioni

Le tre storie analizzate, lontane per genere e coordinate spazio-temporali (un lai antico-francese del XII secolo; un racconto popolare russo registrato nell’Ottocento; una novella-fiaba napoletana d’autore del Seicento), sono in realtà tre declinazioni differenti di un medesimo pattern narrativo: una fanciulla visitata da un giovane ospite misterioso, sotto forma di uccello, si trasforma in attiva visitatrice, andando a compiere un lungo viaggio sulle tracce dell’amante ferito e scomparso in un regno lontano. Tramite lo studio comparato e gli strumenti forniti dall’analisi etno-antropologica sembra possibile individuare dietro alla cerca muliebre l’archetipo del rito iniziatico femminile e del conseguente viaggio oltremondano sciamanico. La risalita al nucleo archetipico è giustificata non solo da quanto le tre narrazioni condividono ma anche dai vari elementi particolari che, volta a volta, il singolo testo mette in scena. L’archetipico del rito iniziatico risulta, inoltre, l’unico mezzo a disposizione, da un lato, per dare conto della tenace resistenza e dell’incredibile pervasività del nostro pattern e, dall’altro lato, lo strumento che meglio permette la comprensione di determinati particolari refrattari ad altri tipi di approccio. L’ipotesi sciamanica ha permesso infatti una miglior intelligenza di quei dettagli che a una lettura puramente narratologica, ancorata al piano della coerenza cortese e della logica profana, sembrano piatti, poco convincenti, se non addirittura incongruenti.

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Notes

1 Sembra lecito individuare la figura di uno sciamano dietro il cavaliere-astore, protagonista maschile dello Yonec; è quanto emerge dagli sudi di Avalle (1990) e Barillari (2015). La presenza di un percorso iniziatico femminile nel lai bretone è già parzialmente suggerita da Findon (2013). Retour au texte

2 Per il testo dello Yonec si è adottata l’edizione dei Lais bretons (xiie-xiiie siècles) : Marie de France et ses contemporains (2011). Retour au texte

3 Per la solidarietà tra il numero sette e il viaggio oltremondano sciamanico si può ricordare che presso diversi popoli il professionista del sacro ascende al cielo su di un palo in cui sono stati intagliati sette gradini (corrispondenti, nell’immaginario, ai sette rami dell’Albero Cosmico, ovvero i sette livelli celesti); che tra i Samoiedi Yuraki il futuro sciamano rimane disteso per sette giorni e sette notti in uno stato incosciente finché gli spiriti lo smembrano, provocandone la morte alla vita profana e la rinascita alla vita potenziata; o ancora, che per raggiungere la trance lo sciamano lappone deve mangiare un fungo a sette tacche, e così via (Eliade, 1974, pp. 298-303). Retour au texte

4 Calvetti, in uno studio metodologicamente simile al nostro sulle tracce di riti iniziatici femminili nelle fiabe popolari, a proposito di Biancaneve risolve l’apparente incongruenza logica — la matrigna fa allontanare Biancaneve al settimo anno di età, allorché lo specchio magico l’avverte del primato estetico della fanciulla, età che però sembra piuttosto precoce perché la giovane possa già competere in bellezza con la matrigna — proprio rievocando i riti iniziatici delle fanciulle ateniesi e l’importanza che il numero sette vi giocava (Calvetti, 1987, pp. 121-123). Retour au texte

5 Il legame esistente tra i due lenzuoli sporchi di sangue è suggerito da McCracken (2003, pp. 10-15). Retour au texte

6 Si vedano anche Eliade (1978, pp. 114-115) e Kappler (1980, pp. 272-273). Retour au texte

7 Tristan et Yseut. Les premières versions européennes (1995). Retour au texte

8 Per economia di spazio ci limitiamo a ricordare quanto dice Illingworth: «It will be noticed that there are in the plot of Yonec certain fundamental inconstancies. Firstly, after Muldumarec has been wounded, the lady who has been successfully confined in the tower for more than seven years suddenly leaps through the window without any hindrance and follows her lover […]» (1961, p. 504). Retour au texte

9 Sulle nozioni di coerenza cortese e coerenza mitica, formulate a proposito dell’opera di Chrétien, ma perfettamente estendibili alla produzione di Maria di Francia si veda Fourquet (1955-1956). Retour au texte

10 Coomaraswamy (1987, pp. 417-441). Retour au texte

11 Sul Passaggio Difficile si veda Eliade (1974, pp. 512-516). Retour au texte

12 Sul battesimo come rito iniziatico si veda Van Gennep (1981, pp. 80-81). In un altro lai di Maria di Francia, il Guigemar, compare una camicia bianca, utilizzata per bendare l’eroe ferito e appena arrivato nell’Altro Mondo della fata; Wright evidenza come possa ricordare una camicia battesimale, e come, in quanto tale, implichi un rito di passaggio (Wright, 2006, p. 774). Retour au texte

13 Per tutti i testi dell’autore champenois l’edizione adottata è la seguente: Chrétien de Troyes, Œuvres complètes, 1994. Retour au texte

14 Sulla nudità iniziatica in Chrétien de Troyes si veda Barbieri (2013, p. 140) e Barbieri (2017, pp. 184-185). Retour au texte

15 «Rapidità e leggerezza»: la formula simbolica dell’intelligenza, della saggezza, della trascendenza e dell’iniziazione. Si tratta sempre di un passaggio istantaneo in spirito; a tal proposito si veda Eliade (1974, pp. 512-516). Retour au texte

16 Sul carattere sovrannaturale e meraviglioso del castello di Muldumarec si veda Dubost (1995, pp. 55-56); che qualifica in tale dimensione anche il salto dalla finestra e il passaggio sotterraneo della dama. Retour au texte

17 Sulla natura dei tre doni ha ragionato Grisward, che li mette in relazione con le tre funzioni duméziliane: l’anello rappresenterebbe la magia, la sacralità; la spada la forza; la tunica, il cui compito è di rivestire la dama, evasa dalla torre in camicia, la fecondità (1955, pp. 187-194). Retour au texte

18 Il raffronto tra lo Yonec e la novella di Basile è già proposto da Avalle (1990). Retour au texte

19 Un attento confronto tra il lai e la fiaba francese è proposto da Johnston (1906-1907). È in questa versione di AT 432 che figura il sette, numero altamente simbolico e strettamente legato ai riti iniziatici di matrice sciamanica: il principe Charmant, amante della fanciulla protagonista, viene punito e trasformato in uccello per sette anni. Retour au texte

20 Il raffronto è sempre proposto da Avalle (1990). Retour au texte

21 Per la fiaba di Finist e le altre fiabe russe a cui si fa accenno si è adottata la seguente edizione: Afanasev, Fiabe popolari russe [1855-1864], 1967. Retour au texte

22 Si è adottata la seguente edizione: Huon le Roi, Le vair Palefroi, 2010. Retour au texte

23 L’episodio dello Chevalier au Lion e quello di Berte aus grans piés sono già accostati da Dubost che suggerisce il motivo della «pucele au bois et sanz conduit» (1991, pp. 318-325). Per la storia di Berta si è adottata la seguente edizione: Adenet le Roi, Berte aus grans piés, in Les œuvres d’Adenet le Roi, a cura di A. Henry, Tome IV, Bruxelles / Paris, Presses universitaires de Bruxelles / Presses universitaires de France, 1963. Retour au texte

24 Sul cavallo suffragatore, aiutante dell’eroe della fiaba, si veda anche Propp (1972, pp. 271-289). Retour au texte

25 Già Grisward, in chiusura di saggio, rileva la somiglianza del doppio schema triadico nel racconto-tipo 432 e nello Yonec, e auspica uno studio più approfondito: «Il ne serait pas inutile non plus de reprendre un peu sérieusement l’étude des rapports entre le lai de Marie de France et le conte-type 432. […] Les objets-trifonctionnels auxiliaires et les chambres aux chevaliers endormis d’Yonec trouvent leur exact équivalent respectivement dans les quatre œufs magiques et les trois nuits du cabinet des Échos de la variante recueillie par Madame d’Aulnoy !» (1995, p. 194, nota 17). Retour au texte

26 Per la novella napoletana si è adottata la seguente edizione: Basile, Il Pentamerone, ossia La fiaba delle Fiabe, 1977. Retour au texte

27 Il Principe Verdeprato del racconto napoletano non è esplicitamente un amante-uccello, tuttavia viene per ben due volte accostato al mondo degli alati: «come passero» (p. 176); «il vago uccello mio» (p. 178). Retour au texte

28 «Il più tipico caso di intervento sciamanico è strettamente connesso alla diagnostica sovrannaturale delle malattie, che sono generalmente dovute […] alla peculiare condizione di labilità e di esposizione al rischio in cui l’uomo crolla, quando la sua anima ‘fugge’ da lui ed erra liberamente, preda potenziale degli spiriti maligni ed esposta ai pericoli e ai danni del mondo circostante […]» (Di Nola, 1973, col. 887). Retour au texte

Citer cet article

Référence électronique

Benedetta Viscidi, « Tracce di riti iniziatici femminili nello Yonec di Maria di Francia e in AT 432 », IRIS [En ligne], 39 | 2019, mis en ligne le 15 décembre 2020, consulté le 29 mars 2024. URL : https://publications-prairial.fr/iris/index.php?id=992

Auteur

Benedetta Viscidi

Università degli Studi di Padova
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