La doppia vita di una traduttrice palestinese: un ponte tra ferite e parole

DOI : 10.35562/encounters-in-translation.1317

Traduit de :
The double life of a Palestinian translator: A bridge between wounds and words
Autre(s) traduction(s) de cet article :
Das Doppelleben eines palästinensischen Übersetzers: Eine Brücke zwischen Wunden und Worten
Het dubbelleven van een Palestijnse vertaler: Een brug tussen wonden en woorden
Η διπλή ζωή μίας μεταφράστριας από την Παλαιστίνη: μια γέφυρα ανάμεσα στις πληγές και τις λέξεις
زندگی دوگانۀ مترجم فلسطینی: پلی میان زخم‌ها و کلمات
팔레스타인 번역가의 이중적 삶: 상처와 언어를 잇는 다리
La double vie d’une traductrice palestinienne : un pont entre les blessures et les mots
巴勒斯坦译者的夹缝人生:架起一座创痛与文字之间的桥
החיים הכפולים של המתרגם הפלסטיני:גשר בין הפצע למילה
ژیانی دوو لایەنەی وەرگێڕێکی فەڵەستینی: پردێک لە نێوان برینەکان و وشەکان
En palestinsk oversetters dobbeltliv: Ei bro mellom sår og ord
Viața dublă a traducătorului palestinian: o punte între răni și cuvinte
Двойная жизнь палестинского переводчика: мост между болью и словом
La doble vida de una traductora palestina: un puente entre las heridas y las palabras
الحياة المزدوجة للمترجم الفلسطيني: جسرٌ بين الجرح والكلمة
ایک فلسطینی مترجم کی دوہری زندگی: زخموں اور لفظوں کے درمیان ایک پل

Questo saggio esamina l’atto della traduzione da Gaza come una forma di testimonianza di un mondo che scompare, dove la lingua stessa diventa un veicolo di sopravvivenza e un luogo di lotta. Di fronte alla cancellazione in corso, i traduttori palestinesi occupano uno spazio liminale, facendo da ponte tra l’immediatezza del dolore provato in arabo e le strutture distaccate, spesso sterilizzate, di un’altra lingua, non concepita per trasmettere una tale devastazione. Il testo medita sul peso etico della traduzione di storie partorite tra le macerie, testimonianze plasmate dagli attacchi aerei, tra il ricordo e la minaccia del silenzio. Ciascuna parola deve attraversare un terreno segnato dal potere, dagli eufemismi, dall’indifferenza, costringendo la traduttrice a navigare sul labile confine tra l’attenuazione del dolore ai fini della leggibilità e la conservazione della sua urgenza in una lingua condizionata a neutralizzarlo. Radicato nell’esperienza palestinese, questo saggio sostiene che la traduzione non è più un’attività solo linguistica, ma politica e morale, che porta la responsabilità del rifiuto della scomparsa, della resistenza all’addomesticamento e del mantenimento di uno spazio per voci che potrebbero non sopravvivere oltre la frase. Nel tradurre la Palestina, i traduttori operano non solo per trasmettere significato, ma per conservare la vita, l’agentività e la memoria in un mondo che spesso esige la cancellazione prima di offrire la propria attenzione.

This essay examines the act of translation from Gaza as a form of bearing witness to a disappearing world, where language itself becomes both a vessel of survival and a site of struggle. In the face of ongoing erasure, the Palestinian translator occupies a liminal space, bridging the immediacy of grief experienced in Arabic with the distanced, often sanitized structures of another language that was never designed to carry such devastation. The text meditates on the ethical weight of translating stories born in the rubble, testimonies shaped between airstrikes, between remembrance and the threat of silence. Each word must pass through a terrain marked by power, euphemism, and indifference, forcing the translator to navigate the fine line between softening grief for legibility and preserving its urgency in a language conditioned to neutralize pain. Anchored in the Palestinian experience, the essay contends that translation is no longer merely a linguistic task, but a political and moral one, charged with refusing disappearance, resisting domestication, and holding space for voices that may not survive beyond the sentence. In translating Palestine, the translator labors not only to carry meaning, but to preserve life, agency, and memory in a world that often demands erasure before it offers attention.

Cet essai se penche sur l’acte de traduction depuis Gaza et l’entend comme une forme de témoignage sur un monde en voie de disparition, où la langue elle-même devient non seulement un radeau de survie, mais aussi un lieu de lutte. Face à l’effacement progressif de ce monde, les traducteur·rices palestinien·nes occupent un espace liminal, servant de pont entre l’immédiateté de la douleur vécue en arabe et les structures distantes, souvent aseptisées, d’une autre langue qui n’a jamais été conçue pour supporter une telle dévastation. Le texte médite sur le poids éthique de la traduction des récits qui naissent sous les décombres, des témoignages qui prennent forme entre deux raids aériens, entre commémoration et menace de silence. Chaque mot doit se frayer un chemin sur un terrain miné par le pouvoir, l’euphémisme et l’indifférence, forçant les traducteur·rices à chercher un juste équilibre entre l’atténuation de la douleur à des fins de lisibilité et la conservation de son urgence dans une langue prédisposée à neutraliser la souffrance. Ancré dans l’expérience palestinienne, cet essai soutient que la traduction cesse d’être une simple tâche linguistique, et qu'elle devient politique et morale, chargée de refuser la disparition, de résister à l’apprivoisement, et de garder un espace pour des voix qui pourraient ne pas survivre au-delà de la phrase. En traduisant la Palestine, les traducteur·rices œuvrent non seulement au passage du sens mais aussi à la préservation de la vie, de l’agentivité et de la mémoire dans un monde qui a tendance à n’accorder son attention qu’une fois satisfaite son exigence d’effacement.

Traduit par Julie Boéri.
Accédez à la TRADUCTION FRANÇAISE du texte complet.

Plan

Texte

Questo articolo è una versione ampliata e leggermente rivista del saggio apparso per la prima volta in inglese sulla rivista Adi Magazine nel luglio 2025, ristampato e tradotto in Encounters con il permesso dell'autrice.

Introduzione

Questo saggio è stato scritto a Gaza, in uno spazio dove la vita stessa è tradotta ogni giorno nella lingua della sopravvivenza. Scrivere e tradurre sotto assedio significa abitare una doppia vita: una vissuta tra le rovine, la penuria, e la violenza inesorabile, e una che si fa parole che tentano di attraversare i confini e rivolgersi a lettrici e lettori sconosciuti. In questo contesto la traduzione diventa soprattutto un modo per rendere testimonianza piuttosto che un’operazione meccanica, un’etica della presenza che cerca, per quanto precariamente, di portare voci distrutte dai bombardamenti in un altro spazio di ricezione.

Quando ho scritto queste riflessioni, non sapevo che viaggio avrebbero compiuto. Vederle ora rese in cinese, olandese, francese, tedesco, greco, ebraico, italiano, coreano, curdo, norvegese, persiano, romeno, russo, spagnolo, urdu e arabo ci ricorda che la lingua, diversamente dalle persone, non può essere assediata. Le parole rifiutano di essere rinchiuse. Si muovono con una libertà inaspettata, tessendo ponti fragili ma necessari tra geografie in pezzi. 

Ora scrivo questa nota dall’Irlanda, un paesaggio davvero diverso, ma il saggio resta saldamente ancorato alle rovine e al tenace ricordo di Gaza e al suo ricordo. Non parla solo della mia esperienza, ma di una condizione collettiva: la traduttrice come testimone, costretta a navigare tra ferite e parole, tra l’intraducibile e ciò che bisogna a tutti i costi tradurre.

Questo testo dovrebbe quindi essere letto non semplicemente come un’autobiografia o un reportage, ma come un’indagine sulle implicazioni politiche del linguaggio in tempi catastrofici. Chiedo cosa significa trasferire significato tra ambiti divisi e se la traduzione possa essere, per quanto provvisoriamente, una modalità di resistenza contro la cancellazione e una salvaguardia per la presenza umana.

I traduttori come testimoni di mondi che scompaiono

Essere una traduttrice palestinese significa essere un’intermediaria tra un mondo che scompare e uno che spesso rifiuta di riconoscere la sua scomparsa. Significa portare voci attraverso l’abisso del silenzio, contrabbandare significato oltre le barricate della distorsione linguistica e politica, rifiutare l’annientamento della propria storia facendo in modo che le parole non muoiano con le persone. Quello che fa una traduttrice non è solo trascrivere parole, ma archiviare la perdita, documentare la cancellazione, e far sì che anche il più fragile bisbiglio di testimonianza raggiunga il mondo oltre l’assedio.

Nella Gaza di oggi, in particolar modo, la traduzione non è solo un esercizio intellettuale. È un modo per sopravvivere e un’arma contro la perdita di memoria. Tradurre da Gaza significa raccontare non solo il genocidio ma anche i piccoli momenti della vita quotidiana che la guerra cerca di cancellare: il profumo dei fiori d’arancio prima di un bombardamento aereo, la chiamata alla preghiera che aleggia su una città che potrebbe non esistere più la mattina successiva, la voce di una bambina che recita una poesia nell’aula di una scuola che potrebbe essere presto distrutta. Questi dettagli resistono alla disumanizzazione dell’assedio, rifiutando che a Gaza sia permesso di esistere solo come un’astrazione della sofferenza.

Nel saggio “Il compito del traduttore” Walter Benjamin ha scritto che la vera traduzione conferisce a un testo una vita postuma, non semplicemente trasferendo significato ma rendendo possibile la sopravvivenza dell’originale. Ma cosa significa una vita postuma quando l’originale è stato sepolto tra le macerie? Quando il poeta è stato assassinato, quando la casa è stata distrutta, quando chi ha scritto il testo potrebbe non essere più vivo per vedere le sue parole attraversare la soglia di un’altra lingua? Per la traduttrice palestinese non si tratta solo di una questione teorica, ma di una questione necessaria, urgente, pressante. Le storie che traduco non vengono dagli archivi, sono estratte dalle case devastate, scritte negli spazi tra un bombardamento e l’altro, portate nel respiro di chi potrebbe non vivere abbastanza per raccontarle di nuovo.

Il mondo ha sempre chiesto che i palestinesi fossero tradotti prima di essere sentiti. Non è mai stato abbastanza che una madre gridasse il nome del proprio figlio dopo un bombardamento aereo; il suo dolore deve essere prima ammorbidito, mediato, reso digeribile per un mondo che preferirebbe che le sue tragedie fossero inquadrate in rapporti umanitari e titoli di giornale con i verbi al passivo. Ma io so cosa succede quando le storie sono lasciate nella loro forma originale, rifiutando l’accomodamento che la traduzione a volte richiede. Sono ignorate. Sono viste come troppo crude, troppo insistenti, troppo imbarazzanti. Il mondo preferirà sempre le narrazioni familiari che conservano il suo senso di stabilità a quelle che lo scuotono e lo turbano profondamente. Perciò la traduzione diventa non solo una necessità, ma una battaglia etica, per trovare una lingua che resista sia alla scomparsa che all’addomesticamento, permettendo al dolore di rimanere senza filtri e allo stesso tempo di attraversare i posti di blocco linguistici che decidono quali sofferenze possono essere riconosciute e quali cancellate.

Ho vissuto questa tensione in ogni storia che ho tradotto. Mentre lavoravo a un progetto di libro collaborativo per ArabLit, ho tradotto “نوارس تنتظر شاطئًا لا يصل” (Gabbiani che aspettano una riva che non arriva mai) di Mohammed Taysir, una storia che segue un profugo che guarda una bambina stretta alla mamma nel sedile anteriore di un camion che trasporta bestiame, con i capelli ornati di fiorellini. Nel testo originale in arabo il suo vestito azzurro “quasi fiorisce”: un verbo delicato, che denota un momento di bellezza interrotta forzatamente, annientata dal fumo soffocante del motore diesel del camion. Traducendolo ho esitato. In inglese le parole rischiavano di perdere la loro forza. In arabo era chiaro: il vestito, la bambina, il futuro. A tutto era stato negato il proprio momento di fioritura. Ma in inglese, potevo fidarmi che il lettore l’avrebbe percepito? O l’avrebbe letto di sfuggita, nel modo in cui le persone leggono di sfuggita le tragedie che non sono le loro?

Come si fa a rendere il dolore in una lingua che è stata addestrata a neutralizzarlo? Come si fa a portare la verità di una casa annientata nel vocabolario di un un mondo che ha da molto tempo normalizzato la sua distruzione? Ogni lingua ha i suoi limiti, ma l’inglese, in particolare l’inglese dei media generalisti, delle dichiarazioni diplomatiche, delle narrazioni “da entrambi i punti di vista”, è stato attentamente costruito per privare la sofferenza palestinese di agentività, riducendo i massacri a “scoppi di violenze” e gli assedi a “misure di sicurezza”. Tradurre Gaza in questo linguaggio significa lottare contro le stesse strutture che sono state create per oscurarne la realtà. È questo l’esilio dei traduttori palestinesi: esistere tra due mondi, nessuno dei quali appartiene loro completamente.

E anche mentre traduco, so che la lingua stessa è un esilio. Sono intrappolata tra l’arabo, la lingua del dolore, dell’intimità e dell’immediatezza intraducibile, e l’inglese, la lingua della diplomazia, della distanza, della violenza categorizzata con cura. In arabo la perdita di espressività è chiara. Una madre non “perde” un figlio, è in lutto, devastata, distrutta. Ma in inglese la perdita è qualcosa di passivo, clinico, qualcosa che semplicemente succede. Le bombe “prendono di mira”, le case “crollano”, i bambini “muoiono” come se nessuno fosse responsabile. Tradurre significa lottare contro queste strutture, rifiutare la grammatica dell’occupazione, riportare gli agenti dentro frasi concepite per cancellarli.

L’etica del tradurre la guerra

La traduzione è sempre stato un atto di slealtà. L’espressione italiana “traduttore, traditore” suggerisce che qualcosa è sempre perso, il significato stravolto durante il trasferimento da una lingua all’altra. Allo stesso modo ne “Il compito del traduttore” Walter Benjamin parla della traduzione come di un processo che necessariamente trasforma l’originale, in cui il significato non è semplicemente trasferito ma invece ricreato, riconfigurato e reinterpretato. Ma per i traduttori palestinesi nel tradimento c’è in gioco molto di più: la traduzione è una battaglia sul significato, una complessa negoziazione dove ogni parola diventa un dilemma etico e ogni frase uno scontro con il potere. Il tradimento inerente alla traduzione non è più una questione di estetica o di fedeltà, ma di sopravvivenza.

Tradurre Gaza significa non solo cercare le parole giuste, ma anche le orecchie disposte ad ascoltarle. I traduttori palestinesi occupano uno spazio di tensione insopportabile tra la cruda necessità della verità senza mediazioni e le strettoie di un discorso globale condizionato a ritrarsene. Non è sufficiente essere accurati, il dolore deve prendere una forma che possa passare attraverso un mondo che ha addestrato se stesso a non guardare. Non è una questione di conversione linguistica, è un atto di resistenza, di ribellione. Il problema non è solo quello di trovare le parole giuste, ma di conservare la devastazione e non permettere che sia neutralizzata, non permettere che la violenza che manda in pezzi una casa diventi una metafora, o che la morte di un bambino diventi una statistica. La traduzione allora diventa una forma di resistenza, un modo per portare la memoria in un mondo che vuole dimenticare, per insistere che anche se l’originale è intraducibile nel suo dolore, deve però essere sentito.

Poche persone hanno capito questo peso più intimamente del compianto Refaat Alareer, poeta, professore e curatore editoriale, la cui vita e il cui lavoro hanno incarnato la necessità di rifiutare il silenzio. Refaat Alareer era una delle principali voci letterarie di Gaza, e non solo uno scrittore di straordinaria chiarezza, ma un curatore di voci troppo spesso silenziate dal caos provocato dalla guerra e dai filtri dei media. Nella sua pionieristica e innovativa antologia Gaza writes back. Racconti di giovani autori e autrici da Gaza, Palestina, Alareer non ha raccolto storie che ammorbidissero l’immagine di Gaza o la confezionassero per la compassione internazionale. Ha offerto invece qualcosa di molto più rischioso: una vicinanza diretta, senza remore. Gli scrittori che ha messo insieme non si traducevano per non fare sentire gli altri a disagio, reclamavano uno spazio che era a lungo stato loro negato. Le loro storie rifiutavano il vocabolario dell’umanitarismo, dei verbi alla voce passiva e della sicurezza. Non parlavano in astratto, ma nella lingua tagliente dell’immediatezza: parlavano di case bombardate mentre i bambini dormivano, di amanti separati dai posti di blocco, di sogni interrotti dal fuoco dei droni. La visione editoriale di Alareer non anestetizzava il dolore di Gaza e non cercava di renderlo universale attraverso le metafore, ma ribadiva il diritto di parlare chiaramente, di documentare senza distorsioni, di rifiutare l’aspettativa che il dolore palestinese fosse riconfezionato per poter essere capito. Era chiaramente convinto che gli scrittori palestinesi non hanno bisogno di tradurre la loro realtà in qualcosa di più accettabile, hanno bisogno solo di essere sentiti nei loro termini. Le sue storie palestinesi non erano dati grezzi per argomentazioni politiche o pietà umanitaria, ma letteratura urgente che non può essere ignorata.

Ciò che ha reso il lavoro di Alareer indispensabile non è stato aver reso Gaza più leggibile per il mondo, è stato aver reso impossibile eluderla. Le sue narrazioni non chiedevano di essere comprese in termini stranieri, esigevano di essere affrontate per quello che erano. Ed è forse per questo che è stato preso di mira. Il suo omicidio non è stato solo l’uccisione di uno scrittore e un educatore amatissimo. È stato un attacco mirato contro la lingua stessa, un tentativo deliberato di spegnere la voce di un popolo che rifiuta di essere messo a tacere. Ma l’opera di Alareer resiste, e ogni frase tradotta, ogni pagina portata oltre l’assedio è un atto di rifiuto, non solo contro l’oblio, ma anche contro i termini in cui la Palestina è stata a lungo obbligata a esprimersi.

La posta in gioco della traduzione va oltre Gaza e la Palestina, riguarda più ampiamente le lotte dei colonizzati e degli esiliati, in cui la lingua è sempre stata terreno di scontro. Nel suo libro Riflessioni sull’esilio l’intellettuale palestinese Edward Said ha scritto che l’esilio non è solo una condizione di sradicamento, ma una “consapevolezza contrappuntistica”: una condizione in cui bisogna muoversi tra molti mondi diversi, mantenendo la tensione fra la nostagia della patria perduta e la necessità di articolare quella perdita in lingue che non sono la propria. I traduttori palestinesi occupano questo stesso spazio di frattura, a cavallo del baratro.

Tuttavia la traduzione non è solo la documentazione di una perdita: è anche un atto di rivendicazione, un rifiuto di permettere che la lingua sia dettata dall’occupante. Il lavoro di traduzione, soprattutto dall’arabo all’inglese, è intrinsecamente politico perché sconvolge le gerarchie linguistiche che prescrivono quali voci possono essere sentite e quali devono essere messe a tacere. La poesia di Mahmoud Darwish, in traduzione, non si limita a portare la sofferenza palestinese nel mondo della letteratura globale, ma sfida le strutture che provano a confinare l’identità palestinese ai margini. “Dove andremo dopo le ultime frontiere?”, chiede in “La terra è stufa di noi”1, una domanda che assilla tutti i profughi, e ogni esiliato la cui esistenza è definita da confini che non ha scelto. Il traduttore, quando porta queste parole da una lingua all’altra, fa sì che questa domanda rimanga senza risposta e continui a riecheggiare, esigendo una risposta da un mondo che preferisce ignorarla.

Ma questo tentativo contiene una contrapposizione implicita. L’atto stesso di tradurre narrazioni palestinesi in inglese, la lingua dei precedenti colonizzatori e dei media che definiscono l’occupazione israeliana un “conflitto”, e la lingua che è stata a lungo uno strumento dell’impero, solleva delle domande scomode. Può la lingua dell’oppressore contenere mai pienamente la verità dell’oppresso? L’inglese appiattisce la profondità del dolore palestinese, lo priva della sua urgenza o lo rende troppo astratto In Decolonizzare la mente, lo studioso Ngũgĩ wa Thiong’o sostiene che la lingua non è neutrale, e che scrivere nella lingua dei colonizzatori significa lottare all’interno di una struttura progettata per distorcere e reprimere. I traduttori palestinesi devono quindi combattere una battaglia costante per sovvertire, rimodellare e contrabbandare attraverso le crepe di una lingua imperiale dei significati che essa non era mai stata pensata per veicolare.

Il dilemma della traduttrice: chi ascolta?

La domanda più dolorosa che mi pongo non è se dovrei tradurre ma se c’è qualcuno che mi ascolta. Penso a La porta del sole di Elias Khoury, in cui il narratore parla a un uomo in coma e gli racconta la storia della Palestina come se le parole stesse potessero riportarlo in vita. La traduzione a volte sembra questo, parlare nel vuoto, raccontare la perdita a un mondo che rimane indifferente. Come traduttrice palestinese sono sempre consapevole di come saranno recepite le mie parole, in equilibrio tra dire la verità e far sì che la verità venga sentita.

Noi palestinesi traduciamo perché dobbiamo, perché il silenzio è la fase finale della cancellazione. Ma la traduzione non è un atto neutrale, è intriso della violenza del potere. I traduttori palestinesi non devono solo affrontare delle sfide linguistiche, ma lottare contro le strutture che determinano se le loro parole saranno sentite, stravolte o ignorate. Ho visto come i titoli in lingua inglese riducono il bombardamento di un campo profughi a un “attacco aereo che provoca vittime civili”, un’espressione che rimuove agentività e responsabilità. E so che quando mi siedo per tradurre una testimonianza o un racconto breve dall’arabo all’inglese non sto traducendo in uno spazio vuoto, ma in un discorso già plasmato da eufemismi e elusioni. Il dilemma etico è reale: per rimanere fedele all’originale arabo devo spesso fare i conti con le norme dell’inglese “neutro”, che preferisce le strutture passive alla chiarezza e il vittimismo alla resistenza. Se rendo la voce così come è, arrabbiata, accusatoria, precisa, rischio che la traduzione venga considerata troppo politica o di parte. Ma se stempero quella voce rischio di riprodurre proprio quelle strutture che ci riducono al silenzio. Cammino sul filo tra cancellazione e accusa, tentando di conservare la verità in una lingua che non è sempre preparata ad accoglierla.

E quindi esisto in quello che William E. Du Bois ha descritto come uno stato di “doppia coscienza”, la consapevolezza di come si è visti attraverso gli occhi del mondo insieme alla consapevolezza di un io interiore che il mondo si rifiuta di riconoscere. I traduttori palestinesi abitano due mondi ma non sono pienamente accettati in nessuno dei due: sono troppo immersi nell’immediatezza della guerra per adottare la neutralità distaccata che ci si aspetta da loro e troppo distaccati per via di quello che la traduzione richiede per vivere pienamente la crudezza di quella sofferenza. Traducendo Gaza bisogna tradurre il proprio dolore e contemporaneamente assolvere il compito impossibile di renderlo leggibile per coloro che non potranno mai comprenderlo pienamente.

La domanda rimane: chi ascolta? Queste parole, trasportate attraverso i confini linguistici e culturali, riescono a raggiungere qualcuno oltre le stanze di quelli che già sanno e soffrono? O sono consumate come uno spettacolo, una tragedia, solo un’altra annotazione nell’archivio della sofferenza palestinese che il mondo osserva con pietà ma senza fare nulla? I traduttori palestinesi si aggrappano alla convinzione che finché le parole rimangono, i nomi sono pronunciati e le poesie recitate, Gaza non è ancora cancellata. Eppure la paura rimane: il mondo è disposto ad ascoltare o stiamo soltanto parlando in una camera d’eco di dolore?

Durante la guerra contro Gaza ho tradotto voci che altrimenti sarebbero andate perdute, parole che se fossero rimaste solo in arabo forse non sarebbero mai andate oltre le macerie da cui erano emerse. Nella stessa raccolta in cui il vestito di una bambina stava quasi per sbocciare prima di essere soffocato dal fumo, un’altra bambina sogna di essere lavata insieme al bucato della sua famiglia. “لارغبةَ لي بالحلمِ الآن، ولا رغبةَ لي بالمدينة” (Non ho più voglia di sognare) di Fatima Hassouna si muove in maniera diversa, oscillando tra surrealismo e realtà, familiarità domestica e angoscia esistenziale. La sua protagonista, intrappolata tra il sogno e la veglia, si chiede se anche lei può essere gettata nella lavatrice in cui sua madre mette i panni da lavare. Desidera essere purificata dalla guerra, strizzata come una maglietta bagnata. L’innocenza infantile di credere che perfino una lavatrice possa ripulirla dalla sporcizia della guerra si scontra con la devastante verità che né una macchina, né la mani di una madre possono cancellare quello che è stato fatto. Le ultime frasi di questo racconto sono state molto difficili da tradurre: “Il mondo, prima così piccolo nelle mie mani, mi è scivolato tra le dita. E in un qualche sogno, non so quale, ho perso la vita che conoscevo”. Non si trattava soltanto di trovare le parole giuste, ma di trasmettere il peso di quello che la frase rifiutava di dire. Mi sono chiesta: può l’inglese trasmettere la fisicità dell’arabo, il modo in cui richiede un proprio corpo? Il peso della metafora sarebbe rimasto intatto o si sarebbe dissolto in qualcosa di troppo astratto, troppo distaccato?

Quando ho scritto questo saggio in inglese, Fatima Hassouna era ancora viva. Le sue parole risuonavano, la sua voce si levava da dentro la nostra città bruciata, portando testimonianza e rifiutando di essere cancellata. Ma ora, mentre traduco il mio articolo in arabo per affiancarlo a questa versione per Encounters, lo faccio con la schiacciante consapevolezza che Fatima è stata uccisa dall’occupazione israeliana. Questa traduzione non è più soltanto un atto di resa linguistica, è diventato lo specchio di una tragedia ricorrente: l’annientamento di una persona mentre solo le sue parole rimangono a sfidarne la cancellazione. Questo significa vivere una vita palestinese a Gaza, una vita perseguitata non solo dalla minaccia di perdere la nostra lingua, ma anche dall’implacabile perdita di noi stessi, l’una dopo l’altra. Oggi scrivo di Fatima. Domani, queste parole potrebbero essere tutto quello che rimane di me, se anch’io dovessi essere uccisa come lei. E forse un giorno qualcuno piangerà per me, come ora io piango per lei, in silenzio, dentro di me, con un cuore troppo pieno per le parole2.

Queste storie non documentano solo la guerra, pongono domande che non hanno risposte e tormentano ogni profugo palestinese. Il protagonista errante di Taysir, ad esempio, chiede: “È mai stata così bella Gaza? O sono i profughi che hanno sempre una visione romantica di quello che hanno perso?” In questo modo, egli cattura il crudele paradosso dell’esilio: perdere un luogo significa vederlo con una chiarezza che non era possibile mentre lo si abitava. Allo stesso modo la sognatrice di Hassouna, che si sveglia per ritrovarsi in un luogo ancora diverso, incarna il ciclo infinito della fuga e del ritorno, del desiderio di una casa che è sempre appena fuori portata. Nel tradurre queste storie non stavo solo sostituendo l’arabo con l’inglese, stavo lottando contro le barriere strutturali che prescrivono qual è la sofferenza palestinese “accettabile”. Una traduzione troppo viscerale, troppo umanizzante, troppo diretta corre il rischio di essere percepita come retorica politica, mentre una traduzione troppo controllata rischia di contribuire proprio alla cancellazione che vorrebbe impedire. Questo è il paradosso impossible dei traduttori palestinesi: tradurre fedelmente significa rischiare l’invisibilità, ma tradurre strategicamente significa rischiare la distorsione.

E allora ritorno all’inizio. Non a dove è cominciato questo saggio, ma a dove inizia ogni atto di traduzione palestinese: con l’insopportabile consapevolezza che il mondo potrebbe non ascoltare mai veramente, e l’insopportabile rifiuto di lasciare che il silenzio abbia l’ultima parola. Tradurre da Gaza significa camminare su un ponte costruito con sintassi spezzata e vite spezzate, portando storie troppo pesanti da sostenere e troppo sacre per essere lasciate cadere. Significa parlare a un vento che raramente risponde, sussurrare nomi la cui eco arriva solo a chi osa pronunciarli. Eppure, io continuo a parlare. Io traduco, non perché creda che il mondo cambierà ma perché non tradurre vorrebbe dire arrendersi, dichiarare che la bambina il cui vestito stava per fiorire non è mai esistita, che la madre che stringeva la propria figlia nel sedile anteriore di un camion per il bestiame non è mai stata reale, che il disperato desiderio di Fatima Hassouna di essere purificata dalla guerra insieme al bucato non può essere espresso. Non posso lasciare che questo avvenga. Non posso permettere che le loro parole si dissolvano in macerie.

Come ha scritto Dostoevskij: “tra mille tormenti, io sono”3. Anch’io sono, esisto tra quei tormenti, non solo come testimone, ma come tramite. Come voce. E anche se le storie che racconto non sono sempre ben accette, se vengono accolte con indifferenza o vengono respinte, continuerò a farlo, perché il solo fatto di raccontarle è una forma di resistenza. Perché nominare i morti significa resistere alla loro scomparsa. Perché scrivere una frase su Gaza in inglese significa sfidare le architetture dell’indifferenza globale. E perché, come una delle eroine oppresse di Shakespeare, so che “la mia lingua dirà l'ira del mio cuore, o il mio cuore, celandola, si spezzerà"4.

Non so se il mondo ascolterà mai veramente. Non so se queste parole raggiungeranno mai qualcuno oltre le camere d’eco di chi già soffre. Ma so questo: se le storie di Gaza stanno aspettando di essere trasportate oltre l’abisso, io le trasporterò. Se i gabbiani stanno ancora aspettando la riva, io continuerò a farli esistere con la mia scrittura.

Notes

1 Nota del traduttore: Traduzione di Lucy Ladikoff, https://ilmanifesto.it/archivio/2003133013. Retour au texte

2 Nota della curatrice: Questo paragrafo è stato aggiunto da Alaa il 30 luglio 2025 alla sua traduzione in arabo dell’articolo e in seguito anche alla versione inglese e a tutte le traduzioni che l’accompagnano. Retour au texte

3 Nota del traduttore: Traduzione di Nadia Cigognini e Paola Cotta Ramusino (Mondadori 1994). Retour au texte

4 Nota del traduttore: Traduzione di Sergio Perosa (Garzanti 2018). Retour au texte

Citer cet article

Référence électronique

Alaa Alqaisi, « La doppia vita di una traduttrice palestinese: un ponte tra ferite e parole », Encounters in translation [En ligne], 4 | 2025, mis en ligne le 19 novembre 2025, consulté le 07 décembre 2025. URL : https://publications-prairial.fr/encounters-in-translation/index.php?id=1317

Auteur·e

Alaa Alqaisi

Traduttrice e scrittrice palestinese
Trinity College Dublin, Irlanda

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Traducteur·rice

Federico Zanettin

Università Ca’ Foscari, Italia

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